Sono anni che non ho più un ginecologo. Alla faccia della salute femminile, dell’importanza del rapporto continuativo e di fiducia con il proprio medico curante di tutte quelle cose che ho scritto e di cui continuo a scrivere.
L’ultima visita ginecologica l’ho fatta perché il mio compagno ha insistito, dopo un episodio di dolore molto acuto. Soffro di una lieve forma di endometriosi, due (non così piccole) cisti endometriosiche senza altri focolai, che si fanno sentire una o due volte al mese. Ma quando si fanno sentire mi ricordano che cosa significa dolore. Il mio problema è che quando il dolore c’è, non esiste nient’altro, ma quando il dolore non c’è più, dimentico tutto quello che è stato.
L’ultima visita è stata in un centro specializzato. Dopo anni di peregrinazioni, di delusioni, di senso di inutilità e frustrazione con medici accuratamente selezionati, mi sono affidata al caso, anzi al CUP: la prima visita disponibile in un centro specializzato.
“Quanto ti fa male in una scala da 0 a 10, dove 0 è nessun dolore e 10 è il dolore di una coltellata?”
Il dolore di una coltellata proprio non c’entra nulla con il mio dolore. Grazie a dio non sono mai stata accoltellata, ma riesco a comprendere metaforicamente il dolore di una coltellata associandolo ad alcuni episodi di mal di stomaco acuto che ho provato in passato.
No, il mio dolore non c’entra nulla con le coltellate. Però ha tante caratteristiche e coloriture.
Da 0 a 10 l’intensità del dolore, valutata nel ricordo o durante l’esperienza? Ogni episodio è diverso: devo fare una media da mettere nella cartella clinica? Come si fa una media del dolore?
Alla fine ho buttato lì un numero che servisse a farmi prendere sul serio senza risultare ipocondriaca. Una media tra i miei bisogni, l’immagine che voglio dare di me e le aspettative presunte del medico. Un dato molto oggettivo e scientifico, senza dubbio.
Si può parlare del dolore?
C’è un problema con il dolore: nessuno lo capisce.
Un famoso libro di Elaine Scarry “The body in pain” sostiene la tesi che del dolore non si possa parlare, che il dolore distrugge il linguaggio, annichilisce perfino il mondo di chi vive questa esperienza e pertanto è incomunicabile. "Whatever pain achieves, it achieves in part through its unsharability, and it ensures this unsharability through its resistance to language…Physical pain [brings] about an immediate reversion to a state anterior to language, to the sounds and cries a human being makes before language is learned".
Il dolore ci relega nella solitudine, nella frustrazione dell’incomunicabilità: chiunque abbia vissuto questa esperienza può cogliere la verità nel messaggio della Scarry.
Allo stesso tempo, non posso che constatare che io riesco benissimo a verbalizzare il mio dolore.
Posso descriverne il luogo: dolore diffuso ma meno intenso in un’area vasta e quello più acuto alle ovaie o al punto in cui si trovano le mie cisti. I muscoli delle gambe, dei glutei e soprattutto quel dannato ileo-psoas sono contratti e intorpiditi.
Posso descrivere il tempo del dolore: spesso si presenta ad orari precisi, con un esordio improvviso nel cuore della notte. Dura 1 o 2 giorni al massimo.
Posso descriverne i movimenti, il processo: un dolore uniforme che non scende mai sotto una certa soglia a cui si aggiungono dolori lancinanti episodici (generalmente alle ovaie), che mi fanno rotolare nel letto alla ricerca di una posizione in cui passino.
Posso descrivere cosa mi permette o non mi permette di fare: non posso camminare, se non a fatica e piegata ma posso restare a letto a rotolarmi da un lato all’altro, rannicchiata in posizione fetale. Posso guardare la tv, ma non leggere un libro.
E ancora: è un dolore chiuso, cupo, che mi provoca un senso di ottundimento. Non mi permette di pensare ad altro, nemmeno di provare emozioni, tutta la mia concentrazione solo sul sopportare. A volte è talmente intenso da procurarmi nausea e vomito. Migliora con il caldo e con le cure di chi mi vuole bene, mi scalda la boule dell’acqua calda e cerca di abbracciarmi, anche quando non riesco a stare ferma.
Insomma se ne possono dire di cose!
Solo a posteriori, però, quando il grido e il gemito lasciano spazio al linguaggio. La Scarry ha colto un punto chiave: nel mezzo dell’esperienza del dolore non c’è spazio per parole, pensieri e quasi nemmeno emozioni. C’è solo la presenza acuta del corpo nella sua espressione più estrema, che occupa tutto lo spazio di coscienza. Forse non ci sono più nemmeno io.
Poi però passa e si vuole dimenticare. Ma quando diventa un dolore cronico, una presenza che torna nella propria vita, allora si cercano le parole.
In un vecchio articolo sulla rivista Medicine e Literature, Martha Stoddard Holmes e Tod Chambers scrivevano: "Chronic pain is harder to narrate harder to theorize, harder to treat, because of its intermittent yet ongoing nature and its lack of clear trajectory. The problem of chronic pain may also include the very fact that it can prod its owners to do what no anesthetized or screaming person can do: articulate pain as an experience of change and ambiguity. Until it reaches the threshold of acute pain, chronic pain does not seem to fracture language and can certainly generate it.”
Com’è questo linguaggio? “Nonostante determini una crisi del linguaggio, anzi forse proprio per questo – scrive l’antropologo Giovanni Pizza - il dolore produce nuove forme di immaginazione espressiva, incentrate sulla metafora”.
Il dolore non manda in crash il linguaggio, non in maniera definitiva, ma il bisogno di ricostruire il mondo, spinge il linguaggio al suo estremo, alla poesia e all’arte, più che alla narrazione: “…there is a substantial history of human efforts to remember pain, literally to reembody it through poetry and narrative and art; to deploy it in the service of all manner of meanings; and to produce its modes of poesis, including aesthetics that are in various ways paindriven and philosophies and ethics mobilized by the core concept of human suffering. A cultural history of pain, then, is the history of pain’s cultural products.”
Come si comunica il dolore al medico?
I try to speak to doctors about the severity of my pain. My words float strangely in the air. As I pronounce them, I myself become a spectator. As soon as I begin to speak, I am no longer there. Someone else is speaking these words. Someone who has not suffered the pain, for it is much worse than she says. How can she say so little? … In the meantime, I am watching the doctor. Trying to see how he reacts. Did he get it? Should she be more dramatic? More detailed? But how? How can she, how can I, express this prelanguage torment?
Lous Heshusius
Comunicare al medico il proprio dolore non è tanto una richiesta di comprensione empatica, è la necessità di cercare una soluzione, un lenimento se non il rimedio definitivo a quel dolore. Il dolore apre a domande di senso, certo, ma prima di rispondere delle domande di senso, con più urgenza viene il bisogno di porre fine al dolore.
Le parole, di fronte al medico, non devono solo descrivere l’indescrivibile, ma devono anche raggiungere un altro obiettivo: essere creduti. “Per la persona sofferente il dolore è una certezza, anzi è l’idea stessa dell’’esser certi’, mentre per chi assiste il dolore dell’altro può sempre essere revocato in dubbio, poiché la comprensione è affidata alla ‘credenza’ alla ‘fiducia’ nel resoconto altrui non nella percezione diretta. Resoconto incerto, in un certo senso impossibile”, spiega l’antropologo Pizza.
Molte persone che soffrono di dolore cronico non vengono credute (
molte sono donne). Non è difficile immaginare il continuo sforzo nella scelta delle parole, l’auto-giudizio su quelle scelte, il tentativo di interpretare ogni cenno dell’interlocutore, il tutto replicato innumerevoli volte, fino a diventare un’esperienza straniante, una performance dall’esito incerto.
Qualsiasi conversazione include una dimensione di performance ma l’urgenza di essere creduti, può rendere questa particolare conversazione tragica.
Questa urgenza che viene prima dell’esigenza di narrare, di costruire un senso e integrare l’esperienza nell’identità autobiografica del paziente, dovrebbe rappresentare una mappa anche per il medico, come argomenta
un recente articolo pubblicato sulla rivista di Medical Humanities del BMJ: “I suggest reading episodically can also lead to a different sense of the affective response of a reader/auditor: not to respond to suffering with ‘you are so brave’, or even with ‘your pain is a mystery’, but with ‘I believe you suffer and I stand beside you’".
Nella mia esperienza personale con l’endometriosi, avere una diagnosi chiara mi ha messo al riparo da questa difficoltà di riconoscimento. Ho una diagnosi, scritta nella lingua dei medici, ho le ecografie, dati oggettivi, scientifici.
Eppure, nella mia ultima visita, ho vissuto qualcosa di simile al senso di straniamento descritto da Lous Heshusius: quel numero tra 0 e 10 è stato l’unico esito della mia performance linguistica sul dolore. Il medico lo ha segnato ed è passato velocemente all’esame fisico, per riconfermare la diagnosi, la prognosi e presentarmi per l’ennesima volta le opzioni terapeutiche, chirurgiche e farmacologiche.
Credeva al mio dolore perché fa parte dei sintomi della malattia, ma non ne era interessato. Non mi stupisce che la conversazione si sia spostato sulle dimensioni delle cisti, sull’attività e la funzionalità ovarica piuttosto sulla gestione del dolore, su come affrontare la mia vita quotidiana durante gli episodi di dolore e altri argomenti che per me sarebbe stato interessante e utile affrontare.
Se compito del medico è alleviare la sofferenza, il mio medico in questo momento è l’uomo che si assicura che la boule dell’acqua calda sia ancora calda.
Valutazioni multidimensionali, strumenti e ... più attenzione
… nel dolore gli aspetti psicologici giocano un ruolo determinante. Infatti nella percezione del dolore non è solo importante il segnale che proviene da una lesione in qualche parte del corpo, bensì anche lo stato psicologico, cognitivo ed emotivo dell’individuo. Fattori come l’attenzione, la distrazione, l’ansia, la paura, la depressione modulano la percezione dolorifica con meccanismi molto complessi.
Fabrizio Benedetti
Il medico che cerca le cause del dolore non sbaglia, ma nemmeno sbaglia il paziente che sente il bisogno di essere preso in carico non solo per l’eziologia ma anche per l’esperienza del dolore.
In primo luogo, perché non sempre è possibile eliminare la causa del dolore.
In secondo luogo, perché da un punto di vista neurobiologico il dolore è un fenomeno complesso in cui sono determinanti anche elementi psicologici e ambientali. Lo spiega bene Fabrizio Benedetti, nel suo libro sull’effetto placebo: non esiste una singola area del cervello adibita alla percezione del dolore, ma una fitta rete di aree che svolgono funzioni diverse (risposte motorie, vegetative, motivazione, tono emotivo, ecc) interconnesse tra loro, detta neuromatrice.
Il dolore post-operatorio è un’esperienza diversa rispetto al dolore da cancro, perché diverso è lo stato emotivo di chi sta per guarire e di chi va incontro al peggioramento o alla morte.
Forse, alla luce di queste nuove spiegazioni del fenomeno, la medicina dovrebbe passare dalla spiegazione del sintomo dolore, alla comprensione dell’esperienza soggettiva di dolore, per una valutazione e una presa in carico sistemica.
Quali strumenti ha il medico per ascoltare e valutare il dolore? Ci sarà qualcosa, anche nell’armamentario medico, senza dover ricorrere alla poesia e all’arte, che funzioni meglio di una scala numerica da 0 a una coltellata. Sì, gli strumenti ci sono.
Oltre alle scale unidimensionali, finalizzate a valutare l’intensità del dolore, magari con il supporto di strumenti visuali, ci sono le più complesse scale multidimensionali.
Per esempio, c’è il McGill Pain Questionnaire (MPQ), di cui esiste anche una versione validata anche in italiano, uno strumento "classico" (viene utilizzato da quasi 40 anni) che valuta il dolore, come esperienza multidimensionale e fornisce elementi, parole, per descriverne l’intensità e le qualità sensoriali, emotive-affettive e valutative. Il riferimento teorico è quello della neuromatrice, che permette di comprendere l'importanza della memoria e delle esperienze pregresse.
Il Brief Pain Inventory (BPI), invece, misura sia l’intensità del dolore sia gli effetti, le limitazioni che esso provoca nel paziente. Le domande indagano le precedenti 24 ore e per svolgerlo bastano 15 minuti.
A questi strumenti classici (di cui si riconoscono anche i limiti i possibili bias), se ne affiancano di nuovi, più attenti anche al contesto sociale e all'influenza dei determinanti socio-culturali nella comunicazione del dolore e sempre più al passo con le conoscenze sulla neurofisiologia del dolore.
Le nuove tecnologie stanno portando nuova linfa alla ricerca di strumenti di valutazione: "New tools for pain assessment include visual computerized assisted representation, a data-driven multidimensional scaling method using a neural network, a tool designed to enhance physician-patient communication,web-based tools and a method for thematic analysis of pain-related mental imagery".
Ma prima degli strumenti, quello che serve al clinico, forse, è l'attenzione.
L’attenzione per il dolore non è semplicemente un gesto di “attenzione” e sensibilità verso il paziente, ma uno strumento per raccogliere più informazioni in un’ottica di utilità diagnostica, personalizzazione della cura e valutazione dell’efficacia della cura stessa.
Bibliografia
Benedetti, Fabrizio L’effetto placebo, Carocci 2012
De Benedittis G, Massei R, Nobili R, Pieri A. The Italian Pain Questionnaire. Pain. 1988 Apr;33(1):53-62
Pizza, Giovanni Antropologia medica: saperi, pratiche e politiche del corpo
Main CJ. Pain assessment in context: a state of the science review of the McGill pain questionnaire 40 years on. Pain. 2016 Jul;157(7):1387-99.
Melzack R. The McGill Pain Questionnaire: major properties and scoring methods. PAIN 1975;1:277–99.
Scarry, Elaine. The Body in Pain: The Making and Unmaking of the World. New York: Oxford University Press, 1985.
Stoddard Holmes M.,Chambers T, Literature and Medicine, Volume 24, Number 1, Spring 2005, pp. 127-141, (Article) Johns Hopkins University Press
Wasson S Before narrative: episodic reading and representations of chronic pain Medical Humanities 2018; 44:106-112.